L’ Impronta Ecologica
COS’E’ L’IMPRONTA ECOLOGICA?
E’ la superficie di sistemi ecologici produttivi (foreste, pascoli, terre agricole, acque marine) necessaria a produrre tutte le risorse che ciascuno di noi consuma e ad assorbire tutti i rifiuti prodotti.
QUANTO E’ GRANDE L’IMPRONTA ECOLOGICA?
L’Impronta Ecologica media degli abitanti della Terra è di 1,84 ettari di ecosistemi terrestri e 0,51 ettari di ecosistemi marini per un totale di 2,35 ettari pro capite.
Ma ci sono solo 1,79 ettari di sistemi ecologici produttivi per ciascun abitante della Terra (1,28 ettari pro capite di sistemi terrestri e 0,51 ettari pro capite di ecosistemi produttivi marini).
L’umanità non si limita ad usare quello che i sistemi ecologici (il capitale naturale) può produrre in modo sostenibile (gli interessi sul capitale) ma consuma anche il capitale stesso. Il consumo di oggi è sostenuto al costo di una minore produttività ecologica domani.
MA LE IMPRONTE ECOLOGICHE NON SONO TUTTE UGUALI
Un americano ha un’impronta ecologica di 7,13 ettari pro capite (6,2 ettari pro capite di sistemi ecologici terrestri e 0,93 ettari pro capite di ecosistemi produttivi marini).
Un indiano ha un’impronta ecologica di 0,56 ettari pro capite (0,4 ettari pro capite di ecosistemi produttivi terrestri e 0,16 ettari pro capite di ecosistemi produttivi marini).
Un messicano ha un’impronta ecologica di 1,84 ettari pro capite (1,41 ettari di ecosistemi produttivi terrestri e 0,43 ettari di ecosistemi produttivi marini).
QUAL’ E’ L’IMPRONTA ECOLOGICA DEGLI ITALIANI?
L’italiano medio ha un’impronta ecologica di 3,11 ettari (2,21 ettari di ecosistemi produttivi terrestri e 0,9 ettari di ecosistemi produttivi marini). Un quadrato di 176 metri di lato, fatto per il 29% da mare, per il 43 % da foreste, per il 9 % da terreni agricoli, per il 17 % da pascoli, per il 2% da superfici coperte da cemento (città, strade, infrastrutture).
Ma in Italia tutta questa superficie ecologica produttiva non c’è! Entro il territorio nazionale disponiamo di sistemi ecologici produttivi pari a un terzo del necessario. Tutto il resto dobbiamo importarlo.
Se tutti gli abitanti del pianeta volessero disporre di risorse nella stessa quantità di noi italiani, una sola Terra non basterebbe ( ce ne vorrebbe una e mezzo).
Anche tra gli italiani ci sono grosse differenze nell’impronta ecologica individuale: qualcuno ha un’impronta più piccola della media e pesa meno sul pianeta, altri hanno un’impronta più grande della media e lasciano sul pianeta segni più profondi.
Per approfondire è possibile leggere il libro :
" L'impronta ecologica"
di Mathis Wackernagel e William Rees di cui riportatiamo un estratto ...
L’impronta
ecologica : un indicatore |
|
di
Gianfranco Bologna (Dalla
introduzione al libro “L’Impronta ecologica”
di Mathis
Wackernagel e William E.Rees, Edizioni
Ambiente) Da
quando quattro anni fa ritenni fondamentale che il pubblico italiano
avesse a disposizione questo affascinante testo illustrativo sul metodo
dell’impronta ecologica, il
concetto di impronta ecologica e la sua applicazione come indicatore
globale di sostenibilita’ hanno avuto uno straordinario sviluppo.
Attorno ad esso si e’ anche avviato un dibattito molto stimolante che
tocca, ovviamente, tutti gli aspetti relativi su cosa
si debba intendere per sviluppo “sostenibile”
e cosa si debba intendere per indicatore di sostenibilita’. Mi
e’ sembrato logico, d’accordo con l’editore, di render conto al
lettore, in maniera molto riassuntiva, di cio’ che e’ avvenuto in
questi quattro anni circa gli sviluppi del metodo dell’impronta
ecologica. Ricordo
a tutti che recentemente William Rees (2000) ha ribadito la definizione di
impronta ecologica come l’area
totale di ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta per produrre le
risorse che la popolazione umana consuma ed assimilare i rifiuti che la
popolazione stessa produce. Mathis
Wackernagel,
che, nel frattempo oltre ad operare con il Centro di Studi sulla
Sostenibilita’ dell’Universita’ di Anàhuac de Xalapa in Messico,
lavora con il gruppo Redifining Progress in San Francisco (USA), nel 1997 ha
predisposto con altri sei collaboratori, un ampio lavoro dedicato al
calcolo delle impronte ecologiche
di 52 paesi del mondo che ospitano globalmente l’80% della popolazione
mondiale ed il 95 % del prodotto interno mondiale. In
questo lavoro gli autori scrivono: “Alla
conclusione del Vertice sulla Terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992,
l’umanita’ si trovava di fronte alla sfida obbligata di dover
diminuire il proprio impatto sul pianeta. A cinque anni di distanza,
viviamo in un mondo sempre piu’ in pericolo, con una popolazione piu’
numerosa, maggiori consumi, piu’ rifiuti e poverta’, ma con una minore
biodiversita’, meno foreste, meno acqua potabile da utilizzare, meno
suolo ed un’ulteriore riduzione dell’ozono nella stratosfera. Siamo
tutti consapevoli di essere ben lontani dalla sostenibilita’. Ma quanto
lontani? Se non siamo in grado di misurare, non abbiamo alcuna
possibilita’ di agire. Per fare della sostenibilita’ una realta’,
dobbiamo sapere dove siamo ora e quanto lontano si deve andare ; dobbiamo
cioe’ misurare quanto e’ lunga la strada verso il progresso. La buona
notizia e’ che dopo il vertice di Rio questi
strumenti di misurazione – essenziali per le istituzioni, le aziende
e le organizzazioni di base
– hanno compiuto dei progressi
sostanziali.” Piu’
in la’ nel testo gli autori scrivono: “Sommando
i territori biologicamente produttivi, che su scala mondiale sono pari
a 0,25 ettari di terreni agricoli, 0,6 di pascoli, 0,6 di foreste e 0,03
ettari di aree edificate pro capite, otteniamo
un totale di 1,5 ettari di territorio pro capite; arriviamo a 2 ettari
se vi includiamo le aree marine. Non
tutto questo spazio e’ disponibile per gli esseri umani, poiche’
quest’area ospita anche i 30 milioni di specie (che credibilmente si
pensa possono esistere su questo pianeta N.d.C.) con le quali l’umanita’
condivide il pianeta. Secondo la Commissione Mondiale per l’ambiente e
lo sviluppo almeno il 12% della capacita’ ecologica complessiva e
comprensiva di tutti gli ecosistemi, dovrebbe essere preservata a garanzia
della biodiversita’. Questo 12% puo’ non essere sufficiente per
assicurare la biodiversita’, ma conservarne di piu’ potrebbe non
essere politicamente fattibile. Accettando quindi il 12% come numero
magico per la conservazione della biodiversita’ e’ possibile calcolare
che dei circa 2 ettari pro capite di area biologicamente produttiva che
esistono sul pianeta, solo 1,7 ettari pro capite sono disponibili per
l’impiego da parte dell’uomo. Questi
1,7 ettari diventano il valore di riferimento per mettere a confronto le
impronte ecologiche delle popolazioni.
Si tratta della media matematica della realta’ ecologica odierna.
Ne consegue che, stando alle cifre della popolazione attuale, l’impronta
media deve essere ridotta a questa dimensione. E’
chiaro che alcune popolazioni possono avere maggiori necessita’ a causa
di particolari circostanze, ma per rimanere in equilibrio gli altri
dovrebbero impiegare meno della media a loro disposizione. Non
presupponendo alcun degrado ecologico ulteriore, la quantita’ di spazio
produttivo biologicamente disponibile sara’ pari ad 1 ettaro pro capite
quando la popolazione mondiale raggiungera’ i 10 miliardi previsti.” I
dati sulle impronte ecologiche delle diverse nazioni sono continuamente
rivisti ed aggiornati dal gruppo di Mathis Wackernagel. I
calcoli delle impronte delle 52 nazioni presentati nel lavoro gia’
citato del 1997 (e che si rifacevano a dati del 1993), sono
stati rivisti con i dati aggiornati al 1995 (e con numerosi ritocchi
dovuti al fatto che i calcoli considerano anche l’ecosistema
marino, precedentemente non considerato, che la documentazione sui consumi
e’ piu’ completa rispetto
a quella dei lavori precedenti e
che sono stati rivisti, grazie a recenti pubblicazioni scientifiche, i
dati sulla produttivita’ media dei pascoli e delle foreste, che e’
risultata piu’ bassa di quanto supposto in precedenza) e nuovamente
pubblicati nel 1999 (Wackernagel et al., 1999) nonche’ ripresentati in
altre importanti pubblicazioni (come quella, molto recente, della Royal
Society – Wackernagel, 2000 -). Wackernagel
ed il suo gruppo stanno ulteriormente aggiornando questi dati sulle
impronte, ampliandoli a 150 paesi del mondo, e saranno pubblicati
nell’autunno del 2000, nel rapporto “Living Planet Index 2000”
curato dal WWF Internazionale. In questa sede citiamo alcuni dati
aggiornati rifacendoci al lavoro del 1999 e riportando le impronte
ecologiche, soprattutto dei paesi che sono citati nel testo originale del
libro, per poter tener conto dei loro aggiornamenti. Innanzitutto l’Italia che, secondo i nuovi calcoli aggiornati, ha un’impronta ecologica di 4.2 ettari pro capite, una disponibilita’ di biocapacita’ di 1.5 ettari pro capite e quindi un deficit ecologico di –2.8 ettari pro capite. Vediamo rapidamente altre nazioni, indicando, nell’ordine, impronta ecologica pro capite, disponibilita’ di biocapacita’ pro capite e, surplus o deficit ecologico pro capite: Stati
Uniti : 9.6, 5.5 ,
-4.1. Olanda : 5.6, 1.5,
-4.1. Germania: 4.6, 1.9
-2.8. Australia : 9.4,
12.9, 3.5. Cina: 1.4,
0.6, -0,8.
India: 1.0, 0.5,
-0,5. Francia: 5.3,
3.7, -1.6. Wackernagel
stesso ed altri autori hanno poi applicato
il metodo in diverse realta’ comunali o regionali. Ricordiamo tra
gli altri, il lavoro di Wackernagel
(1998) sull’impronta ecologica di Santiago del Cile e quello di
Folke, Jansson ,
Larsson e Costanza (1997) sull’impronta di 29
citta’ che gravitano sul mar Baltico.
Il
lavoro sul calcolo delle impronte ecologiche si
e’ quindi diffuso in numerosi paesi. Grazie alla pubblicazione
dell’edizione italiana del libro sull’impronta ecologica ed al lancio
che il WWF Italia ha fatto del rapporto “Italia 2000” e dello stesso
volume sull’impronta in occasione della Convention WWF 2000, tenutasi
nell’ottobre del 1996, anche nel
nostro paesi si sono avviate le prime ricerche per realizzare calcoli di
impronte ecologiche di regioni, province e citta’. Il WWF e’ stato
protagonista della diffusione del concetto e del metodo che e’ stato
applicato in diverse situazioni con l’appoggio dei ricercatori del Cras
(Centro Ricerche Applicate per lo Sviluppo Sostenibile). Dapprima sono
stati pubblicati i risultati sperimentali dell’impronta ecologica di tre
piccole citta’ Isernia, con
un’impronta ecologica di 2.09 ettari pro capite, Orvieto
con 2.25 ettari pro capite e Legnago
con 2.34 ettari pro capite (Escludendo il dato relativo al consumo di
pesce) (Bilanzone e Pietrobelli, 1999). Nel 2000 sono stati resi noti i
rapporti che il WWF ed il Cras hanno realizzato per calcolare l’impronta
ecologica della Regione
Liguria che risulta essere di 3.64 ettari pro capite, di Cosenza
che risulta essere di 3.99 ettari pro capite e di Siena
che risulta essere di 4.09 ettari pro capite (i dati sono pubblicati in
tre rapporti WWF curati sempre da Bilanzone e Pietrobelli). Ma
attorno al concetto di impronta ecologica si e’ scatenato anche un interessante
dibattito che ha visto anche un recente numero della prestigiosa
rivista “Ecological Economics” edita dall’International Society for
Ecological Economics, un’importantissima organizzazione scientifica che
riunisce autorevoli ecologi ed economisti e che approfondisce
continuamente teoria e prassi della sostenibilita’, dedicato ad
un’ampio forum sull’impronta ecologica. Uno
dei punti piu’ controversi sull’utilizzo del metodo dell’impronta
ecologica riguarda il fatto se essa puo’ essere utilizzata o meno come
una sorta di linea guida o indicatore per raggiungere la sostenibilita’.
Alcuni autori sono favorevoli ad un utilizzo dell’impronta come metodo
per calcolare il raggiungimento o meno di obiettivi di sostenibilita’,
altri la vedono piu’ limitata ad un valore di tipo pedagogico ma non
certo di uso per policy-making. Ovviamente
esistono pregi e difetti di un qualsiasi indice aggregato qual’e’
l’impronta ecologica.
Essa ha indubbiamente il merito di aggregare e convertire una serie di
complesse modalita’ di utilizzo di risorse in un solo numero: la
superficie equivalente richiesta. Nel fare cio’ semplifica molte
realta’ certamente piu’ complesse.
Basti pensare alla questione energetica che nell’impronta
ecologica, si riduce come calcolo, alla terra necessaria per assorbire il
biossido di carbonio prodotto dai combustibili fossili. Secondo il noto
studioso di ecologia industriale Robert
Ayres (2000), cio’ comporterebbe un’esplicitazione non chiarita
da parte degli autori del metodo, circa il fatto che potrebbe
esserci un mondo sostenibile in cui l’energia e’ derivata dai
combustibili fossili purche’ in quantita’ tale da essere riassorbita
dalla vegetazione delle singole nazioni. Sempre Ayres ritiene che il
metodo postula uno scenario di sostenibilita’ irrealistico che non
riflette le numerose possibilita’ tecnologiche esistenti. Ian Moffat
(2000) ricorda che l’impronta potrebbe essere ridotta
sostanzialmente grazie all’utilizzo di tecnologie ecocompatibili e
ritiene che il metodo dell’impronta
rappresenta una misura di stock mentre oggi sono molto importanti le
analisi dei flussi. Ayres ricorda ancora che il metodo dell’impronta
postula la desiderabilita’ di una sorta di autarchia e l’indesiderabilita’
del commercio. In fondo, dichiara Ayres, il metodo non ci dice nulla di
nuovo rispetto a cio’ che gia’ conosciamo, e cioe’ che il nostro
impatto sugli ecosistemi del pianeta, e’ oggi insostenibile. Il gruppo di Carl Folke dell’Universita’ di Stoccolma e del Beijer Institute of Ecological Economics ha lavorato molto sul concetto dell’impronta e lo ritiene molto valido come “comunicazione” circa la dipendenza umana dalla natura (Deutsch et al., 2000) ma, ricorda, gli ecosistemi sono sistemi adattativi complessi che presentano non linearita’, discontinuita’, soglie, mentre l’impronta ecologica e’ una misura statica che non riesce a rendere la dinamicita’ stessa degli ecosistemi. L’impronta non riesce a fornire informazioni sulla resilienza degli ecosistemi, cioe’ la loro capacita’ di assorbire i disturbi e di riorganizzarsi. In fondo si tratta di un tentativo che cerca di render conto dell’appropriazione umana delle aree degli ecosistemi e che si inserisce in una tradizione esistente da tempo. Il gruppo di Folke non ritiene l’impronta aprioristicamente contro il commercio. Anzi il metodo sottolinea il grande gap esistente tra la funzione del commercio globale e le capacita’ degli ecosistemi di sostenerlo. Molti
studiosi convergono sull’importanza dell’impronta come metodo per
accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica del nostro impatto
sulla natura e della nostra dipendenza da essa. Un altro famoso economista
ambientale Hans Opschoor (2000), originatore del concetto di spazio
ambientale che ha dato il via a numerosi studi nazionali, tra cui quelli
famosissimi, della Germania, realizzato dal Wuppertal Institut e quello
europeo, realizzato sempre dallo stesso Wuppertal,
ha consigliato il ministero olandese dell’ambiente a non
utilizzare l’impronta come indicatore di sostenibilita’, non
ritenendolo in grado di rendere realmente conto dello stato di
sostenibilita’ di un dato paese, territorio, comune ecc . D.J. Rapport
(2000) che ha individuato il cosidetto EDS, Ecosystem Distress Synthome,
ritiene debole l’impronta perche’ non da conto del fatto che le
attivita’ umane hanno condotto alla degradazione molti ecosistemi
trasformando stati di salute a stati patologici con il risultato di compromettere
l’attivita’ economica, la salute umana ed il benessere delle
comunita’. Sono invece
necessari degli assessment della salute degli ecosistemi, che richiedono
l’analisi dei meccanismi con cui
le attivita’ umane degradono gli ecosistemi, le conseguenze di tali
degradi nella capacita’ di far fronte al mantenimento dei servizi
offerti dalla natura e gli impatti della perdita dei servizi della natura
sulla salute umana, le opportunita’ economiche ed il benessere delle
comunita’. Wackernagel e
Silverstein (2000) ricordano che attualmente nessun governo e nessuna
agenzia ONU attua un sistema di contabilita’ sistematico per valutare
qual’e’ l’estensione dell’utilizzo umano della natura rispetto
alla capacita’ degli ecosistemi esistenti. L’impronta
ecologica e’ uno dei pochi strumenti che vanno nella direzione di tenere
in conto le risorse. Il
metodo ha comunque il grande merito di aver scatenato ulteriormente
analisi, studi, ricerche e riflessioni per precisare
meglio cosa sia la sostenibilita’ del nostro sviluppo e come la si
possa misurare meglio e ci ha consentito di avere uno strumento
facilmente comunicabile, per comprendere l’entita’ del nostro
impatto sulla natura. Bibliografia
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Italia, 2000 – Comune di Cosenza . Valutazione dell’impronta ecologica
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